Mattino 5, la farsa del caso Garlasco: tra sorrisi, urla e lacrime in diretta

Ci risiamo. L’Italia intera ancora una volta resta inchiodata davanti allo schermo per il caso di Garlasco, una vicenda che da quasi vent’anni divide, confonde, esaspera. Un delitto irrisolto che avrebbe meritato rigore, freddezza, silenzio, e che invece si è trasformato, giorno dopo giorno, in una sorta di palcoscenico televisivo in cui ognuno recita la sua parte. Nella puntata odierna di Mattino 5, Federica Panicucci ha deciso di consacrare l’intera seconda parte della trasmissione al tema, portando ospiti in studio e in collegamento, pronta ad alimentare un dibattito che, più che chiarire, sembra moltiplicare i sospetti. È davvero giustizia o è soltanto spettacolo?

Il fuoco si è acceso quando un’ospite ha puntato il dito contro l’avvocato Lovati, legale di Sempio, accusandolo di atteggiamenti poco consoni, di continue dichiarazioni che, invece di fare chiarezza, finiscono per gettare benzina sul fuoco. “Ogni giorno c’è una notizia nuova… Lovati ci mette del suo… Oggi addirittura dice che farà un corso rapido da analista”. Parole pesanti, che hanno lasciato intendere un rischio serio: trasformare una vicenda giudiziaria intricata e dolorosa in una barzelletta. “Si rischia di buttarla in burla”, ha detto l’ospite. Una frase che ha rimbalzato come uno schiaffo, perché quando si parla di morte, di sospetti, di processi, la risata non è mai una soluzione.

Eppure, a sorpresa, Federica Panicucci non è rimasta a guardare. Prima ha tentato di smorzare i toni, difendendo l’avvocato Lovati con una frase che sembrava indulgente: “Ma all’avvocato Lovati si vuole bene… siamo abituati a questo”. Poi, forse consapevole che la situazione le stava sfuggendo di mano, ha cambiato registro e si è scagliata contro chi parlava di “burla”. Lì, in diretta, con il volto contratto e la voce ferma, ha gelato lo studio: “Non c’è niente da ridere. Anzi. C’è da piangere. Non c’è da ridere e mi fermo qui!”. Un cambio di tono così brusco da sembrare quasi uno schiaffo televisivo, una scossa per un pubblico che, a forza di ascoltare versioni, smentite e dettagli morbosi, rischia di aver dimenticato il centro della storia: una giovane donna, Chiara Poggi, brutalmente uccisa.

Ma davvero questa televisione serve a fare chiarezza? O piuttosto serve a mantenere alta l’attenzione di uno share che non conosce pietà? I numeri parlano chiaro: 844 mila spettatori nella prima parte, 820 mila nella seconda, 650 mila nel segmento finale. Uno spettacolo che rende, che incolla lo spettatore, che garantisce titoli sui giornali e tendenze sui social. Ma a quale prezzo? La cronaca nera trasformata in serial, il dolore in auditel, la memoria in un dibattito da salotto.

Federica Panicucci Furia

Eppure non è la prima volta che accade. L’Italia sembra aver bisogno di casi irrisolti da trasformare in feuilleton televisivi. Cogne, Meredith, Garlasco: ogni volta la stessa dinamica. Ospiti fissi che diventano opinionisti, avvocati che si trasformano in personaggi, conduttori che oscillano tra l’indignazione e la complicità. Un teatro che promette giustizia ma che spesso consegna soltanto nuove polemiche.

Federica Panicucci, da padrona di casa esperta, conosce bene il meccanismo. Sa che per tenere alta l’attenzione deve alternare leggerezza e dramma, battuta e lacrima. E infatti non si ferma al successo quotidiano: già pronta a condurre una serata speciale per Umberto Tozzi all’Arena di Verona, la conduttrice si muove tra intrattenimento e tragedia, tra prime serate scintillanti e mattinate segnate dal sangue. Una giostra televisiva che non conosce sosta.

Il caso Garlasco, però, non è solo una storia da talk show. È un enigma che continua a sfidare la giustizia italiana, un labirinto di perizie, ricorsi, testimonianze e dubbi che hanno già consumato più di una generazione di cronisti. Ma quanta verità emerge davvero in trasmissioni come Mattino 5? Quando un avvocato annuncia di voler fare un corso da analista, stiamo assistendo a un passo verso la verità o a un passo verso il ridicolo? Non è forse questa la vera domanda che dovremmo porci?

Il pubblico, intanto, resta sospeso tra indignazione e dipendenza. C’è chi si scandalizza per il tono da intrattenimento, e c’è chi non riesce a smettere di seguire, puntata dopo puntata, aggiornamento dopo aggiornamento. Una dipendenza morbosa, come un romanzo giallo senza fine, in cui però la posta in gioco non è fittizia: è la vita di una ragazza, è la dignità di una famiglia, è la credibilità di un intero sistema giudiziario.

La stessa Panicucci, con la sua furia improvvisa, sembra aver percepito il rischio di oltrepassare il limite. Perché ridere di un caso come Garlasco significa ammettere che non crediamo più nella giustizia, significa piegare il dolore al gioco dell’audience. Eppure, il giorno dopo, ci ritroviamo di nuovo lì, davanti allo schermo, ad ascoltare nuove versioni, nuovi dettagli, nuove “analisi rapide”. Come se il tempo non bastasse mai a chiudere i conti con questa storia.

In fondo, questa televisione ci restituisce un’immagine amara di noi stessi: un Paese che preferisce il dibattito infinito alla verità definitiva, che preferisce l’urlo alla sentenza, che si nutre di contraddizioni e si disseta di polemiche. Non è solo il caso Garlasco a essere trascinato nel fango dello spettacolo, siamo noi spettatori a volerci sporcare le mani, a non accontentarci mai, a chiedere sempre un colpo di scena in più.

E allora sì, forse Panicucci ha ragione: non c’è nulla da ridere. Ma forse c’è anche molto da temere. Perché quando la cronaca nera diventa intrattenimento, la linea tra giustizia e spettacolo si spezza per sempre. E in quel momento non è più Chiara Poggi la protagonista, ma noi. Noi che guardiamo, commentiamo, applaudiamo o fischiamo. Noi che trasformiamo la tragedia in share. Noi che, senza accorgercene, ridiamo di fronte a un delitto.

Il caso di Garlasco non finirà oggi, né domani. Continuerà ad abitare i nostri schermi, a riempire le nostre mattine televisive, a infiammare i social. Continuerà a far discutere, a dividere, a sorprendere. Ma la domanda che rimane sospesa è sempre la stessa: vogliamo davvero la verità o ci basta lo spettacolo?

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