Durante la diretta serale del Tg5 di martedì 2 settembre, Cesara Buonamici ha aperto l’edizione delle 20 con un gesto inusuale per il rigore
del mezzo televisivo: delle scuse pubbliche. La giornalista, volto storico del telegiornale di Canale 5 e di recente nota anche per la sua partecipazione come opinionista al Grande Fratello, ha ammesso di avere utilizzato un termine oggi ritenuto inappropriato e offensivo nel corso della puntata precedente.
Il riferimento era a un servizio andato in onda lunedì 1° settembre, quando Buonamici, introducendo la notizia del ritrovamento di un triciclo ortopedico rubato, si era lasciata sfuggire l’espressione “una bambina handicappata”. Un termine che per decenni è stato di uso comune ma che, nel linguaggio contemporaneo, è ormai superato e percepito come riduttivo e stigmatizzante.
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Nella puntata incriminata, la giornalista aveva detto testualmente: “Una storia che è finita bene. Questo triciclo, indispensabile per una bambina handicappata, è stato ritrovato. Sentite come”. Le parole hanno immediatamente suscitato discussioni e critiche, sebbene non fosse in alcun modo evidente un intento denigratorio. La notizia riguardava una bambina con difficoltà motorie, la cui famiglia aveva subito il furto di un mezzo fondamentale per la sua autonomia, poi fortunatamente recuperato.

Consapevole della portata della frase, Buonamici ha deciso di tornare sull’episodio il giorno successivo, aprendo con chiarezza e senza esitazioni: “Riguardo un episodio di disabilità ho usato, sbagliando, una parola che non si usa più. Mi dispiace e mi scuso”. Un mea culpa che, pur nella sua semplicità, ha rappresentato un segnale forte di responsabilità professionale e personale.

Il termine “handicappato” è oggi considerato discriminatorio perché tende a ridurre l’individuo alla sua condizione, trasformandolo in un’etichetta. Invece di valorizzare la persona e le sue qualità, la definisce soltanto attraverso una difficoltà. Un linguaggio di questo tipo rischia di alimentare stereotipi, ghettizzazioni e barriere sociali, contravvenendo ai principi di inclusione che sempre più istituzioni, media e scuole cercano di promuovere.
Oggi si preferisce parlare di “persone con disabilità”, un’espressione che ribalta la prospettiva mettendo al centro la persona e non la sua condizione. Questo approccio riflette quanto stabilito dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, che spiega come i limiti non derivino soltanto da fattori individuali, ma soprattutto dalle barriere fisiche, culturali e sociali che impediscono una piena partecipazione alla vita della comunità.
Il caso ha quindi acceso un riflettore non tanto sulla buona fede di Buonamici, mai messa in discussione, quanto sull’importanza di un linguaggio accurato e rispettoso, soprattutto in televisione, mezzo seguito da milioni di persone. La prontezza con cui la conduttrice ha riconosciuto l’errore potrebbe trasformarsi in un’occasione di riflessione collettiva sull’uso delle parole e sulla necessità di rinnovare il linguaggio pubblico in chiave inclusiva.